“Sfortunatamente devo descrivere due libertini; aspettati perciò particolari osceni, e scusami se non li taccio. Ignoro l’arte di dipingere senza colori; quando il vizio si trova alla portata del mio pennello, lo traccio con tutte le sue tinte, tanto meglio se rivoltanti; offrirle con tratto gentile è farlo amare, e tale proposito è lontano dalla mia mente.”
(Marchese de Sade, Aline e Valcour, 1793)
All’epoca dei lumi Donatien-Alphonse-François de Sade, meglio noto come il Marchese de Sade, tentò di penetrare l’oscurità del male attraverso l’eccesso delle perversioni influenzando, in modo più o meno diretto, la produzione artistica dei secoli successivi.
La ferocia, la violenza delle passioni, la sessualità più cruda e sfrenata si attestarono, nel pensiero del Marchese, come forze fondanti dell’uomo, così proteso verso un bisogno assoluto d’amore sempre in bilico tra peccato ed istinto naturale.
Icona di un’epoca in cui la spregiudicatezza intellettuale si univa ai fermenti rivoluzionari; ben lungi dal poter essere etichettato attraverso le semplicistiche definizioni correnti di “sadismo” e “sadomasochismo”, de Sade sfidò ogni autorità precostituita per penetrare la realtà nella sua conoscenza più oggettiva.
Un’arte non addomesticata, libera di esprimersi anche attraverso le categorie del grottesco, del mostruoso e del blasfemo, questo è il grande messaggio che il Divin Marquis lasciò ad una successiva generazione di artisti: una libertà di espressione che è, prima di tutto, un’affermazione della libertà di pensiero.
Nato a Parigi il 2 giugno del 1740, il Conte Donatien-Alphonse-François de Sade trascorse buona parte della sua esistenza in prigione finendo, nel 1801, internato nel manicomio di Charenton dove morì, senza più uscirne, nel 1814.
Perseguitato da tutti i governi francesi, dal regime monarchico, da quello rivoluzionario e poi anche da quello napoleonico, de Sade portò avanti una sua personale battaglia fondata sull’indagine totale e totalizzante dell’uomo in quanto tale poiché, come lui stesso affermava, tutto è lecito, perché tutto è nella natura, e le creature ne sono la schiuma.
Ateo e libero pensatore, de Sade fece del vizio un modello per l’affermazione di una società più aperta, liberata dai dogmi prestabiliti, e volta verso il piacere della conoscenza e della creatività artistica: il vizio da vivere come un’opera d’arte.
Una tensione verso i lati più aberranti dell’essere, i luoghi più oscuri dello spirito ed i meandri più reconditi della coscienza, che accomunò de Sade a numerosi artisti figurativi, desiderosi di innalzarsi alla percezione dell’infinito considerando tutti gli aspetti dell’uomo dai più geniali ai più nefandi, perché, come sosteneva lo stesso Wilde, il vizio e la virtù sono per un artista materiali di un’arte.
A partire dall’Ottocento con il grande Goya fino all’epoca moderna, i pittori si trovarono a riconoscere il nesso inestricabile esistente tra piacere e dolore, tra gioia e tormento, tra estasi e dannazione. Ecco che allora l’opera di de Sade può essere riletta nel più ampio contesto di una riscoperta del nostro io più vero ed autentico: non vi sono categorie imposte di giudizio, tutto rientra nell’universo naturale dell’esistente.
Il desiderio come l’altra faccia dell’immaginazione, un’immaginazione non addomesticata dalla morale e non inficiata dal comune pensare: un viaggio verso i recessi del nostro essere, luogo privilegiato per la sperimentazione di quell’assoluto a cui l’arte si volge.
Estraneo all’idea di un Dio giudicante atto solamente a reprimere gli istinti, de Sade smascherò quella religiosità utilizzata come forma di sottomissione delle pulsioni, affermando un irruente anticlericalismo ed un licenzioso pansessualismo: l’idea di Dio è il solo torto che non posso perdonare all’uomo.
Nella sua visione rigorosamente atea, il desiderio d’infinito si confuse con l’infinito del desiderio: l’avvicinamento al sublime attraverso l’accettazione della realtà più carnalmente corporea, senza freni, remore o inibizioni. Non è nel godimento che consiste la felicità, ma è nel desiderio, nel rompere i freni che ci oppongono a questo desiderio.
A più di duecento anni dalla sua morte de Sade ci lascia un testamento filosofico di profonda umanità: uomo fra gli uomini non ebbe timore di sottoporsi alla pubblica gogna per affermare la libertà del suo pensiero.
La psiche umana è conturbante e spaventosa allo stesso tempo, la grandezza di de Sade fu di accettare pienamente questa duplice dimensione plasmando una metafisica capace di conferire un senso umano alla perversione: è necessario penetrare nelle tenebre più oscure per comprendere e tollerare quell’affascinante mistero che è l’uomo.