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Il Marchese de Sade: l’arte della perversione

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“Sfortunatamente devo descrivere due libertini; aspettati perciò particolari osceni, e scusami se non li taccio. Ignoro l’arte di dipingere senza colori; quando il vizio si trova alla portata del mio pennello, lo traccio con tutte le sue tinte, tanto meglio se rivoltanti; offrirle con tratto gentile è farlo amare, e tale proposito è lontano dalla mia mente.”

(Marchese de Sade, Aline e Valcour, 1793)

Franz von Stuck, Il Peccato, 1893

Franz von Stuck, Il Peccato, 1893

All’epoca dei lumi Donatien-Alphonse-François de Sade, meglio noto come il Marchese de Sade, tentò di penetrare l’oscurità del male attraverso l’eccesso delle perversioni influenzando, in modo più o meno diretto, la produzione artistica dei secoli successivi.
La ferocia, la violenza delle passioni, la sessualità più cruda e sfrenata si attestarono, nel pensiero del Marchese, come forze fondanti dell’uomo, così proteso verso un bisogno assoluto d’amore sempre in bilico tra peccato ed istinto naturale.

Illustrazione per "Justine o le disavventure della virtù", 1791

Illustrazione per “Justine o le disavventure della virtù”, 1791

Icona di un’epoca in cui la spregiudicatezza intellettuale si univa ai fermenti rivoluzionari; ben lungi dal poter essere etichettato attraverso le semplicistiche definizioni correnti di “sadismo” e “sadomasochismo”, de Sade sfidò ogni autorità precostituita per penetrare la realtà nella sua conoscenza più oggettiva.
Un’arte non addomesticata, libera di esprimersi anche attraverso le categorie del grottesco, del mostruoso e del blasfemo, questo è il grande messaggio che il Divin Marquis lasciò ad una successiva generazione di artisti: una libertà di espressione che è, prima di tutto, un’affermazione della libertà di pensiero.

Félicien Rops, Pornocrates, 1896

Félicien Rops, Pornocrates, 1896

Nato a Parigi il 2 giugno del 1740, il Conte Donatien-Alphonse-François de Sade trascorse buona parte della sua esistenza in prigione finendo, nel 1801, internato nel manicomio di Charenton dove morì, senza più uscirne, nel 1814.

Perseguitato da tutti i governi francesi, dal regime monarchico, da quello rivoluzionario e poi anche da quello napoleonico, de Sade portò avanti una sua personale battaglia fondata sull’indagine totale e totalizzante dell’uomo in quanto tale poiché, come lui stesso affermava, tutto è lecito, perché tutto è nella natura, e le creature ne sono la schiuma.
Ateo e libero pensatore, de Sade fece del vizio un modello per l’affermazione di una società più aperta, liberata dai dogmi prestabiliti, e volta verso il piacere della conoscenza e della creatività artistica: il vizio da vivere come un’opera d’arte.

Alfred Kubin, Lussuria

Alfred Kubin, Lussuria

Una tensione verso i lati più aberranti dell’essere, i luoghi più oscuri dello spirito ed i meandri più reconditi della coscienza, che accomunò de Sade a numerosi artisti figurativi, desiderosi di innalzarsi alla percezione dell’infinito considerando tutti gli aspetti dell’uomo dai più geniali ai più nefandi, perché, come sosteneva lo stesso Wilde, il vizio e la virtù sono per un artista materiali di un’arte.

Francisco Goya, La lampada del diavolo, 1797

Francisco Goya, La lampada del diavolo, 1797

A partire dall’Ottocento con il grande Goya fino all’epoca moderna, i pittori si trovarono a riconoscere il nesso inestricabile esistente tra piacere e dolore, tra gioia e tormento, tra estasi e dannazione. Ecco che allora l’opera di de Sade può essere riletta nel più ampio contesto di una riscoperta del nostro io più vero ed autentico: non vi sono categorie imposte di giudizio, tutto rientra nell’universo naturale dell’esistente.
Il desiderio come l’altra faccia dell’immaginazione, un’immaginazione non addomesticata dalla morale e non inficiata dal comune pensare: un viaggio verso i recessi del nostro essere, luogo privilegiato per la sperimentazione di quell’assoluto a cui l’arte si volge.

Johann Heinrich Füssli, Incubo, 1781

Johann Heinrich Füssli, Incubo, 1781

Estraneo all’idea di un Dio giudicante atto solamente a reprimere gli istinti, de Sade smascherò quella religiosità utilizzata come forma di sottomissione delle pulsioni, affermando un irruente anticlericalismo ed un licenzioso pansessualismo: l’idea di Dio è il solo torto che non posso perdonare all’uomo.

Nella sua visione rigorosamente atea, il desiderio d’infinito si confuse con l’infinito del desiderio: l’avvicinamento al sublime attraverso l’accettazione della realtà più carnalmente corporea, senza freni, remore o inibizioni. Non è nel godimento che consiste la felicità, ma è nel desiderio, nel rompere i freni che ci oppongono a questo desiderio.

Félicien Rops, Tentazione di sant’Antonio, 1878

Félicien Rops, Tentazione di sant’Antonio, 1878

A più di duecento anni dalla sua morte de Sade ci lascia un testamento filosofico di profonda umanità: uomo fra gli uomini non ebbe timore di sottoporsi alla pubblica gogna per affermare la libertà del suo pensiero.

La psiche umana è conturbante e spaventosa allo stesso tempo, la grandezza di de Sade fu di accettare pienamente questa duplice dimensione plasmando una metafisica capace di conferire un senso umano alla perversione: è necessario penetrare nelle tenebre più oscure per comprendere e tollerare quell’affascinante mistero che è l’uomo.

Alfred Kubin, Salto mortale

Alfred Kubin, Salto mortale

Félicien Rops, forntespizio per L'iniziazione sentimentale di Joséphin Péladan, 1887

Félicien Rops, forntespizio per L’iniziazione sentimentale di Joséphin Péladan, 1887



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